Intervistai Alex Zanardi nel 2012 per il libro che stavo scrivendo sugli angeli e il talento. Ogni intervista è un incontro, un dono, una crescita. L’incontro Con Alex fu un insegnamento di cui gli fui sempre grata. Oggi più che mai in questo tempo le sue parole, la sua esperienza sono per me e per tutti noi una traccia, una via per il futuro.
“ E’ difficile dire se spesso sia semplicemente suggestione, voglia di credere o se esista qualcosa di più. Io sono convinto che esista qualche cosa oltre noi e quindi mi rifiuto di credere che noi siamo figli soltanto di una particolare combinazione fortuita di elementi chimici. Non ho una particolare certezza, per cui ho sempre cercato di fare la mia strada e di sfruttare l’occasione che mi è stata data venendo al mondo. Poi certamente in alcuni momenti mi è capitato di alzare gli occhi verso l’alto, perché tendenzialmente noi tutti crediamo che se c’è Qualcosa, Qualcosa deve essere per forza in alto. E mi è capitato di alzare gli occhi al cielo e di rivolgere un sorriso a una persona, che, in quel momento particolare, era mio padre.
Dopo che mio padre è mancato, mi sono ritrovato spesso durante il giro di rientro delle corse a rivolgergli un pensiero e, magari, anche a parlargli e, nel caso di una bellissima vittoria, anche a dirgli: «Guarda che cosa abbiamo combinato!» e includere mio padre in quella squadra che mi ha portato poi, più avanti nel tempo, a conquistare tantissime gioie e soddisfazioni.
Ma dopo il mio incidente ho vissuto due momenti che non vorrei definire incredibili, ma per lo meno curiosi.
Il primo è avvenuto nei primi giorni in cui cercavo di recuperare un po’ di indipendenza nel mettermi da solo le protesi. Che non è affatto semplice e scontato: c’è una procedura complicata che alcuni pazienti, ancora dopo una decina di anni, non sono in grado di rispettare autonomamente.
Ebbene, quel giorno sembrava andare tutto storto.
La calza che mi permetteva di infilare la protesi si era rotta, una ferita si era riaperta. Avevo trovato una gocciolina di sangue dentro l’invaso e mi era venuto molto caldo. Ero tutto sudato, la protesi non entrava e lo strumentino che mi ero costruito per facilitarmi queste attività mi era caduto per terra. Insomma… non me ne andava bene una! Nella giornata giusta ti metti a ridere, nella giornata storta questi incidenti ti fanno perdere le staffe. Io ero in questo stato di difficoltà e tensione quando sentii un casotto micidiale: mio figlio correva in casa con gli amici e, afferrato il telecomando, alzava al massimo il volume della televisione.
Io dissi: «Spegnete e andate giù!», perché eravamo al piano superiore della casa. I bambini schiacciarono il telecomando per spegnere, ma evidentemente anziché spegnere cambiarono semplicemente canale e scapparono via lasciando accesa a tutto volume la televisione. Io, che stavo vivendo questa giornata particolarmente faticosa ed ero già arrabbiato, posai tutto per terra e incavolato andai nella sala per spegnere il televisore. Entrai e osservai lo schermo dove Wayne Rainey, pilota ed ex campione di motociclismo, stava rispondendo alle domande di un giornalista.
Wayne Rainey stava raccontando come, dopo l’incidente che gli aveva causato la lesione della spina dorsale e che lo aveva costretto su una sedia a rotelle, aveva deciso di aprire a Lagunaseca una pista dove anch’io avevo corso, un centro per piloti diversamente abili. Lo guardavo mentre parlava sorridente sotto il sole californiano e mi sentivo una schifezza. Dissi: «Ma io ho molto di più di questo e sto qui a lamentarmi. E lui, invece, è là, felice e sereno che va avanti con quel che gli resta a va avanti molto bene, per la verità».
Quello è stato il primo momento in cui ho veramente pensato: «Ma… non può essere un caso…».
Due settimane è accaduto un altro episodio particolare.
Mia moglie aveva incominciato ad avvertire un forte dolore alla schiena, che divenne ben presto insopportabile. I medici le diagnosticarono una pazzesca ernia al disco, che andava operata subito. Fu quindi ricoverata all’ospedale. Tornai a casa e mi venne incontro mia madre che mi annunciò: «Guarda che Niccolò ha male all’orecchio. Ha preso l’otite e solo adesso si è addormentato».
Mio figlio a mezzanotte si rimise a piangere e continuò a piangere fino alle tre e mezza della mattina, nonostante gli avessi somministrato il classico antidolorifico. Erano le tre e mezza: mia moglie era in ospedale e sarebbe stata operata la mattina successiva, io ero messo come ero messo, mia madre aveva un forte raffreddore e non si voleva avvicinare a mio figlio, che continuava a piangere disperato.
Insomma, in quel momento, alle tre e mezza di mattina, ho alzato gli occhi al cielo e ho detto: «Mi hai veramente rotto le balle!». Ecco mi sono relazionato in quel modo con nostro Signore: «Se questa è una prova, hai vinto tu! Mi arrendo: hai veramente rotto le balle!».
Di colpo mio figlio ha smesso di piangere e dopo pochi minuti si è addormentato tenendomi la mano. Mia madre ha potuto, così, andare a letto e il giorno dopo, poi, l’operazione di mia moglie è andata benissimo.
Allora ho pensato: «Ah! Mi ha ascoltato…!».
Queste esperienze mi hanno insegnato che noi tutti abbiamo il compito di fare del nostro meglio per noi stessi in questa vita. E’ importante cercare di essere persone integre, di avere dei valori, di essere corretti nei confronti del nostro prossimo.
In poche parole di sfruttare questa nostra vita nel miglior modo possibile.
Non ci è dato di sapere se esiste Qualche cosa oltre questa vita, ma dei segnali ci sono. Per cui, almeno, dobbiamo coltivare la speranza e pensare che è valsa la pena di vivere la nostra vita. Io non penso che cercare di essere un buon padre per i propri figli, un buon marito per la propria moglie, una persona corretta nei confronti di amici, conoscenti e del prossimo in generale sia necessariamente quello che noi dobbiamo fare per ricevere un premio in un’altra vita, ma, secondo me, è il modo migliore di vivere. Poi, se Lassù esiste Qualcosa d’altro, tanto meglio! Io francamente non ne sono convinto, ma ci credo abbastanza. E i fatti curiosi descritti hanno rafforzato la mia speranza. Dopo l’incidente l’appoggio ricevuto è stato enorme, ho avuto un cordone di solidarietà pazzesco. Però, per essere sincero, è stata tutta da questa parte del tunnel. Io non ho visto nessuna Luce, per cui non mi è costato nessun sacrificio tornare indietro. Scherzi a parte, io non ho mai avuto bene chiaro che razza di boa ho metaforicamente doppiato. Oltre quel punto c’era davvero soltanto la morte.
Di questa esperienza ho un ricordo confuso, ma tangibile.
Sono stato per una settimana in uno stato di coma indotto. Quando piano piano mi hanno risvegliato mi sentivo malissimo, ma sapevo dentro di me che non avevo nessuna spada di Damocle sulla testa. Quello che era accaduto rappresentava già il peggio e da lì si poteva soltanto ripartire. Quindi, proprio perché stavo così male, mi è venuto naturale da subito prendere tutto con grande ottimismo. Al di là del fatto che sono ottimista di natura, da subito ho detto: «Caspita! Guarda che cosa mi sono lasciato alle spalle!».
In quel momento mi è sembrato, dunque, naturale, sorridere per la felicità di quanto era rimasto e di concentrarmi su quello che avevo per lasciarmi invece alle spalle quello che avevo perso. Da quel momento in avanti ho incontrato grandissima solidarietà, grandissimo appoggio e affetto non soltanto dalla famiglia e dagli amici, ma anche da tutte le persone che rappresentavano il mio pubblico e che mi conoscevano.
Io credo di aver contribuito tantissimo a tutto questo slancio mostrandomi una persona che non si faceva trovare impreparata nel momento in cui c’era una mano tesa. Io ero pronto a sfruttare questo aiuto. Spesso, invece, accade che una persona rifiuti la mano tesa perché in quel momento non riesce ancora ad accettare quanto le è accaduto. Io, invece, ero contento, perché ero ancora vivo e quando una mano mi veniva tesa io ero lì ad afferrarla.
Non penso di avere una forza particolare, ma di aver imparato nel corso della vita che tante cose possono essere fatte; che è importante essere pronti a fare delle scelte e a fare poi tutto quello che serve per farle funzionare.
Questa consapevolezza mi è stata insegnata da mio padre: se siamo riusciti a fare una serie di cose, noi possiamo farne anche altre diverse per natura e tecnica da quelle fatte fino a quel momento. Io non credo che volere è potere. Credo che certi risultati si ottengono non con il grande gesto di un attimo, ma magari con la continuità di un’azione ragionata, pensata e con dei sacrifici. Però se abbiamo davvero passione per il conseguimento di un risultato, se una cosa è già stata fatta da altri non c’è ragione per cui anche noi non potremmo riuscire, magari anche innovando con qualcosa di nostro. Insomma, è un po’ il dovere di ognuno di noi. Poi, attenzione: bisogna accontentarsi di ciò che abbiamo, ma se si può avere qualcosa in più sarebbe diabolico non provarci. Io sono sempre stato convinto di essere bravo, perché appassionato; perché se ognuno di noi ha un grande desiderio di fare bene una cosa, prima o poi il risultato lo porta a casa. Dentro di noi esistono capacità che possono essere migliorate, allenate, e, quindi, magari per ognuno di noi esiste potenzialmente un diverso punto di arrivo. Però è indubbio che nessuno si inventa campione dalla sera alla mattina, campione bisogna diventarlo. Ci può essere qualcuno che magari in origine aveva un potenziale maggiore, ma non gli è interessato più di tanto svilupparlo e quindi resta meno bravo di un altro che invece si è applicato di più. E l’impegno non smette mai…
C’è sempre il rischio, per quanto ti impegni e ti applichi, di arrivare alla gara più importante , a quella cui tieni di più e che ci sia qualcuno che è più bravo di te. Ma forse questa è la bellezza non soltanto dello sport, ma della vita in generale.
Ho sempre creduto di avere una nuova occasione per provare ancora. A volte, magari, tornavo da una gara un po’ deluso perché speravo di ottenere dei risultati e, invece, non ero riuscito. Ma sapevo che il giorno dopo, però, sarebbe iniziata una nuova avventura. Mi mettevo di nuovo al lavoro con la consapevolezza che avrei potuto alzare ancora un po’ l’asticella, arrivare alla gara successiva e battere lo stesso avversario che nella gara precedente mi aveva mandato a casa deluso.
Io vedo un comune denominatore nella mia carriera sportiva e nella mia riabilitazione, nella mia capacità di avere una vita che, per certi aspetti, forse è anche meglio di prima e cioè il fatto che bisogna farsi una lista di priorità e concentrarsi su quella più grande. Soltanto dopo aver realizzato quella, puoi poi partire per cercare di risolverne una nuova. Nello sport è cosi.
Poi, ovviamente, come ho detto prima, c’è chi è più dotato e porta a casa un certo risultato e c’è chi lo è meno e ne porta a casa uno leggermente inferiore. Non è che chi non ha il talento del fuoriclasse non porta a casa nulla, perché con il lavoro e con l’impegno qualcosa si porta sempre a casa. Quindi francamente nella mia riabilitazione io penso di non aver fatto nulla di speciale. Mi sono fatto delle domande senza pretendere che qualcuno mi desse delle risposte. E’ davvero il mio credo! Io penso che uno debba sapersi fare delle domande nella vita: che cos’è che conta davvero nella vita? Che cos’è importante per me? Io ho fatto la mia strada e ne sono molto felice. Sono altresì convinto di essere stato un grande punto di riferimento per tante persone che magari hanno avuto problemi di natura diversa rispetto al mio, ma che vedendo le mie gesta ampiamente pubblicizzate mediaticamente si sono ispirati a me e hanno pensato: «Caspita! Se l’ha fatto lui, anch’io posso fare qualcosa di simile». Però non ho mai pensato di essere in missione per nessuno. Io faccio la mia strada e se qualcuno mi dice: «Sai che vedendo te sono ripartito anch’io» è un bellissimo complimento! Io alzo il cappello e ringrazio. Io sono una persona che ha qualche pregio e molti difetti, cha ha fatto una serie di cose. Cose che sono state fatte anche da altri; solo che questi altri avevano meno titoli sul giornale del sottoscritto. E sono molto lusingato che in tante persone siano arrivate a dire: «Caspita! Ma se lui, senza gambe, è tornato a correre in macchina, ha vinto delle gare, è tornato addirittura alla Formula Uno io non devo trovare la forza di andare al negozio sotto casa e comprare un paio di mele?».
Mi fa piacere di essere stato di esempio e aiuto per persone che magari non hanno l’ottimismo del sottoscritto e che in un momento di difficoltà tendono a fermarsi un po’ più a lungo e a rimanere attaccati a quello che era prima di quell’incidente e di quell’episodio.
Io, per mia fortuna, soprattutto all’inizio della mia vita, ho avuto tante sfide, tante prove. All’inizio della mia carriera le chiamavo sfide perché non è stato facile trasformare la mia passione in un mestiere. Le difficoltà erano tante e avevo paura di non riuscire, di non essere all’altezza. La voglia, la passione era così grande che alla fine, ho superato tutte queste prove. Poi ci si allena a superarle.
La paura di non riuscire, di non essere all’altezza si vince con l’amore, con la passione per quello che si fa. Quando segui la passione non conosci sacrifici: ogni momento è bello, è gioia.
Mi ricordo che quando vidi la prima gara di go-kart pensai: «Ma io non sarò mai capace di fare quello che fanno loro!».
E’ stato questione di un attimo perché subito dopo ho pensato: «Ma chi se ne frega! Io faccio quel che posso e poi, comunque, vedremo… Non si sa mai…».
E, alla fine è stato così!
Anna Fermi